Delio Donzel si occupava di rifiuti e di inquinamento. Nel municipio di Aosta era assessore all’Ambiente. Qualche titolo di giornale – con la firma del sottoscritto in calce – sulle polveri sottili troppo alte, le targhe alterne, i rifiuti abbandonati per strada e i problemi del «porta a porta» lo aveva fatto imbufalire. Poi ci eravamo capiti, e il nostro rapporto era cresciuto. Ultimamente si definiva «un pensionato, ma non quelli che guardano i cantieri». Ci sentivamo spesso, ridevamo per le piccole beghe quotidiane di chi aveva preso il suo posto in Comune. Oggi Delio se n’è andato, e ci mancherà.
Delio era venuto su nell’atletica, prima come quattrocentista e poi come allenatore. Era stato presidente del Cral Cogne, il dopolavoro di Aosta, che all’epoca era una macchina da guerra, con una forza assoluta. Nel Cral, Delio vedeva la forza popolare, il tempo libero accessibile a tutti, lo sport e gli hobby aperti anche a chi non può permettersi di pagare quote o abbonamenti.
Dal piccolo paese di Charvensod, semplice consigliere, era sceso in città per diventare assessore. Si era fatto apprezzare come persona di buonsenso, pacata in pubblico, ma ferma e anche sanguigna in privato, ed era uscito indenne da cambi di maggioranza, nascita e declino dei partiti, cambi di casacca e tensioni varie. Metteva sempre l’interesse dei cittadini – e il consenso che ne poteva derivare, come ogni politico dovrebbe fare – davanti a tutto.
Per gestire l’immondizia in città, aveva sposato l’idea del pirogassificatore: una specie di inceneritore che faceva paura ai valdostani sia per i presunti effetti sulla salute, sia per i costi di costruzione e di gestione. Una volta perso il referendum popolare, Delio si era messo il cuore in pace: il suo cruccio era di non essere riuscito a capire le persone, a farsi capire da loro. «Forse abbiamo sbagliato, ora dobbiamo seguire altre strade» diceva. Al contrario di tanti suoi colleghi dell’epoca, che ancora oggi tirano fuori ciclicamente che in Valle d’Aosta bisognerebbe bruciare i rifiuti come fanno tutti, che non è mai morto nessuno, che la differenziata è una rogna, lui non aveva mai cambiato idea. I cittadini avevano ragione, anche se non la pensavano come lui. E anche di fronte alle difficoltà, ai cumuli di monnezza in alcuni quartieri, ai costi crescenti della Tari, aveva continuato nella sua strada, convinto che alla lunga le cose sarebbero migliorate.
Nel Consiglio comunale di Aosta, Delio era il più contento delle mozioni, delle interpellanze, delle interrogazioni delle minoranze contro di lui. «Almeno posso spiegare cosa stiamo facendo». Ringraziava, a volte con salamelecchi di un paio di minuti, il consigliere di opposizione che cercava di metterlo in difficoltà. A parte non riuscirci, lui si guadagnava tempo per spiegare le sue scelte, per valorizzare il lavoro del personale e dei dirigenti, per ritagliarsi spazio sui media con notizie e novità.
Era un politico, ma non sopportava i maneggioni, i «democristiani» anche se aveva militato in un partito di ex Dc. Per questo aveva qualche nemico tra i compagni di strada di un tempo, e se c’era da alzare la voce non si tirava indietro. Una volta, in pieno Covid, Delio si è presentato in Consiglio comunale con una t-shirt dei Pink Floyd. Sapeva che c’era un «merdone» – e ce ne sono per forza tanti nella gestione di un ente pubblico – e che bisognava sviare, prendersi il tempo per cercare una soluzione, non farsi impantanare. Eravamo tutti chiusi in casa, collegati da un pc: tutti hanno parlato della sua maglietta, del Delio più rock che avessero mai visto. Il «merdone» è passato in secondo piano, scomparso.
Era stato eletto in Consiglio regionale: sarebbe dovuto subentrare per qualche mese a fine legislatura. Aveva rifiutato. «Alessandro, a me piace risolvere i problemi, non far parte di un teatrino», mi aveva spiegato. Aveva rinunciato a qualche soldo e a qualche mese di tranquillità, ma aveva scelto di restare in municipio, vicino ai cittadini, con le mani in pasta.
Delio aveva la battuta pronta. Un esempio: durante i cantieri per il teleriscaldamento, se ne era uscito così: «Portate i figli a scuola a piedi. Fare due passi non ha mai ammazzato nessuno». Pensate se oggi lo dicesse qualcuno in municipio: ci sarebbe una sommossa popolare contro le piste ciclabili, la carenza di parcheggi, il meteo infausto, la crisi dei negozi e le buche nelle strade. Delio era così: più ambientalista degli ambientalisti, più verde dei verdi. Per qualcuno era troppo ambiguo, avrebbe dovuto schierarsi. Ma alla fine la città l’ha cambiata più di altri e, a posteriori, ha avuto ragione lui: per i cambiamenti serve pazienza, serve tempo, ma poi le buone idee funzionano.
Oggi, nel tardo pomeriggio, in via Guido Rey ad Aosta non lontano dalla Torre dei Balivi, ho trovato questa tessera di puzzle. Immagino il malessere di chi l’ha persa, per di più è un pezzo di bordo e quel puzzle è rovinato per sempre. Chi l’avesse smarrita mi può contattare.
| buttato dentro il 6 Dicembre 2020 | alle ore 10:48 | daAlessandro Mano | nelle categorienews | se hai qualcosa da direscrivilo qui » |
Tante cose non capisco, e infatti di questa pandemia non ho mai scritto una riga riservando ai social soltanto le mie personali scemenze. Una, però, non la capisco proprio: chiedo a qualcuno degli esperti che legge se ha due minuti per chiarirmi le idee. Ora: non usciamo di casa da un mese, se non con la mascherina. Non possiamo vedere nessuno. Ci laviamo le mani compulsivamente. Nelle pochissime occasioni in cui dobbiamo stare al chiuso con qualcuno, spalanchiamo porte e finestre raggiungendo temperature da Siberia, e chiudiamo tutto solo quando naso e orecchie stanno per staccarsi, solo per evitare di sfigurarci per sempre. In tutto questo, i casi di Covid-19 sono scesi moltissimo. La cosa che mi arrovella da tempo è: ma se non piglio il Covid perché adotto seicento precauzioni al limite dell’ossessione, ma dove dovrei prenderla di preciso l’influenza stagionale?
| buttato dentro il 31 Ottobre 2020 | alle ore 11:05 | daAlessandro Mano | nelle categorienews | se hai qualcosa da direscrivilo qui » |
L’altra sera ero in un’enorme casa, in via Festaz, ad Aosta. C’era una specie di festicciola, nei sotterranei. Sta di fatto che siamo entrati all’ora dell’aperitivo, siamo usciti verso mezzanotte. Una volta fuori, c’era il sole: all’altezza del punto in cui tramonta in questo periodo, ma alto, caldo, innaturale. Io mi sono stupito della cosa, gli altri che erano con me invece sembravano tranquillissimi: «Ma non lo sai che è cambiata l’ora?». Ho capito, cari amici, ma è mezzanotte, il sole è in una posizione che non ha senso, non siamo in Svezia – né all’envers – cos’è che non quadra? «Sei il solito esagerato, tiri fuori sempre storielle nuove per lamentarti dell’ora solare». [Ah, prima che arrivi qualcuno a dirmi che faccio le feste e gli assembramenti e signora mia il Covid-19 dove lo metto, è un sogno. Ma lo uso per ribadire una volta di più quanto io e il mio inconscio ci andiamo fuori per sta storia, ogni anno]
| buttato dentro il 25 Ottobre 2020 | alle ore 12:13 | daAlessandro Mano | nelle categorienews | se hai qualcosa da direscrivilo qui » |
«Ormai sono un ometto, quest’anno il cambio dell’ora non mi frega» ho pensato ieri sera andando a dormire. E invece, puntuale due volte l’anno, ci sono ricascato. Mi sono svegliato presto (non chiedetemi se alle 6 o alle 7 perché gli orologi di casa facevano due ore diverse).«Beh, faccio colazione e torno a dormire». Chiudo gli occhi, li riapro. È passata un’ora e 10, «e dai, è ora di darsi da fare, op op op, sono quasi riposato». E in sostanza, adesso che mi aggiro cadavere per casa, ho fatto mente locale e ho dormito ben 10 minuti. Dopo chiamo Augusto Rollandin e gli chiedo come funziona con i microsonni.
La statale era quel mostro mangiapalloni – quanti SuperTele inghiottiti da un tir gigantesco o da una macchina che andava troppo – che si ergeva come ostacolo tra noi e il resto del mondo. Eravamo un gruppone di bimbi e di ragazzini più grandi, il pallone ci scappava sempre mentre giocavamo in cortile, rotolava giù di corsa e poi serviva un “grande” per andare a recuperarlo. Altrimenti altro che bistecchizzare solo un pallone, il tir o la macchina spianava anche noi.
La statale ho imparato a domarla quando andavo ormai alle medie: una volta mica c’erano i bambini svegli di adesso che in prima elementare hanno già la patente, e poi per andare a scuola non dovevo attraversare. Non c’erano marciapiedi, non c’erano strisce pedonali, invenzioni moderne e superflue. Bisognava attraversarla così, un po’ confidando nella fortuna, un po’ nel buon cuore degli automobilisti, un po’ nei loro freni.
La statale, prima della costruzione dell’autostrada per il Monte Bianco, era anche quel mostro con due file di tir fermi, a ogni sciopero era la festa dell’esser murati vivi in casa, un confinamento d’antan. Roba che mia nonna, quando andava in centro, diceva «sono andata ad Aosta» e io la guardavo come avessi visto Et vestito di rosa con i baffi finti.
Il quartiere Cogne è venuto dopo. Noi homo sapiens sapiens ci abbiamo messo un’era geologica ad attraversare la statale, un’altra a scendere una stradina minuscola tra le case della prima collina, una terza a scoprire che c’erano altri sapiens sapiens giù di sotto, ed erano proprio come noi. Il problema, dopo la cattiva statale, era che c’era un altro mostro con cui fare i conti. «Stai attento che ci sono i drogati». Era un’ossessione. Il Tg diceva che c’erano i drogati, i giornali pure. Io, che già allora ero scemo, dicevo ai miei «il Tg ha detto che il quartiere Cogne pullula di drogati». Invece di sdrammatizzare, il terrore per i drogati non faceva che aumentare.
Ci si addentrava con quest’angoscia, nel quartiere Cogne degli Anni 90 che pullulava di drogati. Perché il problema non erano i drogati, ma il quartiere. Poi però c’erano le case e i bambini, altri SuperTele che non rischiavano di finire sotto le gomme di un tir. C’erano le cabine telefoniche, prima gialle e poi rosse. C’era la chiesa, con dei preti un po’ strani e delle suore che pensavano solo a dire ai bambini quant’era cattivo il diavolo (e io diciamo che non presi bene né i primi, né soprattutto le seconde).
Le uniche siringhe che ho mai trovato le ho viste sotto casa mia, al di qua della statale. Ci avevano invaso? C’erano i drogati anche di qua? Non andava bene, i drogati erano al quartiere Cogne, si annidavano nelle rampe dei garage e gli spacciatori andavano a raggiungerli con il Ciao. Era lì che pullulava di drogati. La statale, ultima frontiera della civiltà, avrebbe dovuto arginarli. Cosa non aveva funzionato?
All’epoca quelle siringhe – ed è la cosa che mi ha sempre colpito di più – sono rimaste al loro posto per mesi, senza che nessuno le raccogliesse o che le buttasse via. E io ogni volta che passavo di lì le guardavo: arrivai al punto di pensare che le vedessi solo io, per colpa del fatto che il pullulìo di drogati era altrove e quella soltanto una mia allucinazione.
Se nel 1993 ci fossero stati gli smartphone e i social network, qualche leone della politica le avrebbe fatte rimbalzare ottenendo milioni di like: dei drogati fuori dal quartiere Cogne, inconcepibile.
Poi è venuto il tempo del lavoro che faccio adesso. Spesso devo raccontare il degrado, i drogati, le retate. Di come cambia la città. E spesso rido per come è dipinto il quartiere, e i miei colleghi mi guardano male. È capitato anche che qualche giornalista di fuori veda per la prima volta il quartiere Cogne, che noi di qui dipingiamo come il Bronx o come la Scampia delle Vele. E sorride guardando i suoi giardinetti inglesi e le strade pulite, l’oratorio pieno di bambini che giocano e il campetto di pallacanestro sempre vivo. Mica dico che non ci siano problemi, eh. Ma basterebbe la volontà di affrontarli. Come un bambino di dieci anni doma il mostro della statale, una città potrebbe domare il mostro del quartiere che pullula di drogati, aprendo gli occhi.
Alla fine non ci vuole tanto: ci si sporge sul ciglio, si guarda prima a sinistra e poi a destra e se non c’è nessuno si attraversa. La prima volta fa paura e vorresti la mamma per mano, la seconda sai che puoi farcela, la terza non ci pensi più.
Io ammiro tanto quelli che hanno un’opinione su tutto, un’opinione sempre. Non sono capace di fare lo stesso, credo non lo imparerò mai. Anche perché non voglio diventare come chi ha la faccia tosta di spiattellare il suo punto di vista ogni dieci minuti per dire a tutti che bisogna fare così e non cosà. Come chi ha sempre certezze. Sui migranti, sul tempo, sugli aiuti internazionali, sulla salsa da mettere nel panino, sulla sanità, sull’andamento del raccolto di arance. E dubbi: mai. L’altro giorno è morto Ezio Bosso, e io ci sono rimasto.
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