Ai fascisti non importava se c’entravi o non c’entravi

| buttato dentro il 25 Aprile 2017 | alle ore 15:30 | da | nelle categorie news | se hai qualcosa da dire scrivilo qui » |

Quella notte di metà settembre, la mia nonna aveva 22 anni.
I nazifascisti hanno bruciato prima la casa di sua mamma, poi quella di suo papà.
Per rappresaglia. Inumana, feroce. Era il 13 settembre 1944.
Oggi la guerra è quella cosa lontana, con quel pazzoide di Trump e quell’invasato di Kim che fanno a battaglia navale con armi capaci di farci fuori tutti in dieci minuti. Settantadue anni fa era qui, in mezzo a noi, davanti a casa nostra, nelle nostre strade.
Dopo quattro anni di guerra, di razionamenti, immaginate di perdere tutto, a vent’anni. Un «tutto» che non era poi molto. Il vestito, l’unico, della festa. Il letto. Il tetto e le mura di casa. Le mucche nella stalla, quelle che con la famiglia non eravate riusciti a portare in montagna. L’aratro. La caldaia per fare il formaggio. Quattro patate e quattro rape rosse in cantina.
La Liberazione è lontana, bisognerà aspettare il 27 aprile dell’anno successivo. Quella sera del ’44, il 12 settembre, due militari fascisti aspettano, invano, il cambio della guardia. Spazientiti, decidono di sparare un paio di colpi d’avvertimento verso il loro quartier generale, nell’albergo Col du Mont di Leverogne.
«Di nuovo quegli stronzi dei partigiani» pensano i militari che stanno nella locanda.
La guerra si stava mettendo male, le truppe erano in rotta, ma i tedeschi controllano ancora tutto il Nord e resistono sulla Linea Gotica: da alleati, sono ormai solo più «l’invasor». Al Col du Mont, gli uomini si fanno trasportare da qualche bicchiere di vino. Su di giri, si mettono a sparare contro i due di guardia, uccidendo entrambi. Non è un attacco dei partigiani. «Uccazzo, che figura». E allora, la messinscena: per salvare la faccia verso i superiori, fingono che quell’attacco fittizio sia reale. «Quei bastardi ne hanno fatti fuori due dei nostri e un altro è malmesso»: un’altra invenzione, perché il terzo si è ferito da solo alle gambe caricando male un mortaio.
La mattina dopo, i vertici fascisti di Villeneuve (ribattezzata con fantasia littoria «Villanova Baltea») comandati dai tedeschi rastrellano le case, radunano i – pochi – uomini rimasti, li mettono al muro e ne fucilano 13. Tredici amici, vicini di casa, padri di famiglia, lavoratori. Poi saccheggiano le case, dando fuoco a quelle di Leverogne, Chez-les-Garin e Rochefort. Cinquanta distrutte da terra a tetto. Altre 25 solo in parte.
«Noi non eravamo partigiani – raccontava sempre mia nonna -. Ce n’erano, ma noi non c’entravamo niente». Ecco, quando oggi sento tutti gli smarcamenti e i distinguo, mi viene sempre in mente questa sua frase. Perché a tedeschi e fascisti non interessava se eri di destra, di sinistra, di centro. Smettetela di fare gli antifascisti col tergicristallo: ai fascisti non importava se c’entravi o non c’entravi, ai fascisti non importa se c’entri o non c’entri.
Settant’anni dopo, la libertà l’abbiamo respirata e non dovremmo pensare neanche un secondo di farne a meno. Dovremmo essere solo «incoscienti come un uomo compiaciuto della propria libertà».



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